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Recensione: “Subh-Lair – Una storia” di Angelica Cremascoli

Care Fenici, oggi Nayeli ci parla di “Subh-Lair – Una storia” di Angelica Cremascoli

Tara vive a Edimburgo, insieme alla zia e a un maialino domestico, ed è una scrittrice, o quasi. Originaria di un piccolo paese costiero delle Highlands, Ullapool, vive sentimenti ed emozioni attraverso i suoi personaggi, rubati dalle esperienze dei fratelli e delle sorelle, immaginati durante un momento di silenzio e solitudine sul divano del soggiorno, in perpetuo conflitto con la realtà. Qui prende forma, pian piano, un ultimo lavoro, la fiabesca vicenda che vede conoscersi e innamorarsi perdutamente Zia Momo e A.G. Connor, l’affascinante, enigmatico e misterioso pirata comparso a Ullapool trent’anni prima e mai più tornato.

La sua tranquilla e monotona esistenza verrà sconvolta dall’arrivo dalla Russia di un eccentrico trio di turisti: Jenna, la capricciosa e scorbutica cugina di Tara, soprannominata il Corvo; Victor, l’impertinente e logorroico fidanzato, e Tam, un grosso e stupido terzo in comodo. È Victor, bel violinista dagli occhi verdi, che segnerà la svolta nella stesura del romanzo, pungolandone e provocandone l’autrice con domande, consigli e intense lezioni attraverso la Scozia.

Più che un romanzo, ho avuto la sensazione di leggere un dialogo sui massimi sistemi. Intendiamoci, in “Subh-Lair- Una storia” c’è una trama, che procede piuttosto lentamente, c’è l’incontro tra Tara e Victor che inizialmente non si piacciono, poi iniziano a conversare in modo sempre più particolare, più intimo, fino a incontrarsi in alcuni momenti di profonda empatia. Sono due persone che si scoprono attraverso il dialogo; lui in realtà rimane più misterioso, lei si apre a delle domande. A corredo troviamo altri personaggi, altre vicende, altre vite.

Più che una storia romantica, troviamo un Victor che stuzzica Tara a riflettere sul suo stile di approccio alla vita, all’amore, e sull’uso che fa della scrittura di romanzi rosa per evitare di vivere davvero quelle emozioni.

Due innamorati ci sono davvero: la zia e un fantomatico pirata di cui Tara vuole scrivere. Le sue difficoltà nel farlo, sommate alle vicissitudini dei personaggi, finiscono per dare vita davvero a una storia molto simile, a farle vivere realmente qualcosa di analogo: casualmente incontra un ragazzo e finisce per farci amicizia, lui la stuzzica e la stimola a ragionare sul tema dell’amore, sul senso della scrittura romantica e sul significato delle storie d’amore. Realtà e finzione vengono poi a intrecciarsi in modo simbolico e significativo.

L’effetto metafora si capisce solo a metà strada là dove inizierà anche a essere chiaro l’intento di filosofeggiare sui significati dell’amore, da quello platonico, fraterno, amicale,   incarnato nell’amico gay Gulliver, a quello passionale (anche se di passione non si vede l’ombra), sulla realtà e sulla finzione, sul bisogno di sognare l’amore eterno e sulla realtà che spesso non è all’altezza.

«È tardi per essere geloso. Hai già chiuso il capitolo “eterosessualità”.»

Gulli reagisce con una smorfia frustrata.

«Preferire pene o vagina non c’entra, Fragola. È questione di dove alberga il cuore, di chi vorresti si svegliasse ogni giorno accanto al cuscino sul quale sbavi.»

È un libro che si sviluppa in modo molto differente dalle classiche storie rosa. A partire dal fatto che di amore se ne parla, ma non lo si vive. Passando poi per la mancanza di un vero e proprio finale, dato che l’idea è che il bello dell’amore sia vivere l’attimo in cui tutto sembra sospeso, non importa cosa accadrà dopo. Quell’attimo in cui c’è la sospensione della realtà, delle speranze, dei rimorsi, dei rimpianti, quell’attimo in cui si vive l’estasi.

Risulta del tutto privo di passione, di sconcezze, di caratterizzazioni focose.

È un libro intellettuale, che parla di scrittura e della traslitterazione della realtà. Mette a confronto chi guarda la vita aspettando e chi invece la morde. Ma rimane comunque una narrazione intellettuale, nel senso che ragiona sulle cose, più che viverle. Come se volesse spiegarle al lettore, che a volte, come me, potrebbe non sentirsi all’altezza della profondità di tali ragionamenti filosofici.

«Hai mai desiderato qualcuno con un’intensità tanto violenta e dilaniante da paralizzarti sulla soglia di un respiro?» le domanda, assorto. «Hai mai provato quel genere di dolore?»

Dopo un secondo di vermiglio spaesamento, lei scuote la testa.

«Peccato.»

«Peccato?»

«Sì, è un peccato che una donna non sappia com’è desiderare ed essere desiderata. E non intendo le solite stronzate poetiche sul sesso, l’unisono dei corpi, la fusione delle anime, la scoperta dell’estasi, eccetera. Intendo l’insaziabile necessità che ti si annida in grembo, che divora le viscere e prosciuga il sangue; lo spasimo inafferrabile che aggiunge un battito al cuore, sconvolgendo e sovvertendo la tranquilla, regolare stabilità dell’organismo; il tremore incessante delle mani, protese a ghermire, ad afferrare, a strappare sostentamento da qualcun altro, qualcuno che annusi nell’aria, che ti accarezzi sulla pelle, il cui gusto ti si posa sulla lingua se parli, ridi o l’osservi a bocca aperta. Qualcuno che è unico e che ti rende unico, per il quale diventi egoista, geloso, possessivo, oscillando con solenne costanza sull’orlo della follia. (…) O io non sarei stato che un personaggio di passaggio, forse giusto un po’ chiacchierone, che non avrebbe potuto guadagnare molto spazio all’interno della tua “bella storia” di pirati, mostri lacustri, zie svitate, fidanzati gay e maiali. Il mio ruolo l’hai scelto tu, tu che sei la scrittrice, tu che, su un piccolo universo, hai il potere di creare e distruggere, scegliendo chi ascoltare e perché ascoltare.»

È un libro molto lento perché caratterizzato da lunghi pezzi riflessivi utilizzati come introduzione, come approfondimento dei personaggi o come riflessione fine a se stessa. Di azione c’è poco. Le parti più scorrevoli sono i dialoghi, che a tratti, però, ricordano la teatralità delle grandi opere ottocentesche.

Il punto di vista cambia a ogni capitolo: alcuni sono in prima, altri in terza persona.

Sembra che sia successo poco o niente da quando ci siamo trovati, voi e io: un paio di conversazioni, un pizzico di saggezza, una manciata di volti a cui affezionarsi e di cui interessarsi per un breve, misurato periodo. Un leggero soffio d’emozione sulla giada delle mie grandi valli, che chiede alle foglie e alla polvere dei sassi di levitare, che fischia, consentendomi di cantare. No, non è successo nulla. L’esistenza scorre immutata, scandita dal rintocco dei massimi sistemi, come sempre.

Serve davvero molta concentrazione nella lettura, perché le frasi sono lunghe e contorte, poco scorrevoli, quasi ottocentesche. Ho trovato possibile leggerle solo nel pieno silenzio, non lo consiglierei come lettura sotto all’ombrellone o in ambienti che non permettono una totale concentrazione (cosa che invece è la mia abitudine di lettura).

Per quanto mi riguarda, sicuramente l’uso sapiente delle parole c’è, la criticità emerge quando rifletto in merito a cosa vogliano dire, queste parole, ovvero quanto a lungo si attorcigliano su loro stesse solo per fare bella mostra di sé e quanto invece, servono a comunicare davvero qualcosa al lettore.

«Era una battuta,» m’informa, il sorriso inalterato, disegnato con un tratto obliquo e deciso su un viso che smuove sia meraviglia che inquietudine; su cui si sfidano una disarmante, inebriante bellezza, data dall’opalescenza adamantina della pelle e dall’armoniosa, delicata fisionomia, oltre a una pericolosa, attraente furbizia, che si divincola dall’angelica innocenza delle espressioni e scintilla, maliziosa, provocante, sfrontata, dalle pupille d’onice, nere come la vischiosa pece.

Ci sono però delle belle ambientazioni nella Scozia: per chi vuole visitare questi luoghi o li ha visti, sono dei bei modi per richiamare delle emozioni vissute in quei territori.

Di russo e di violinisti c’è veramente poco, se non una bellissima frase di Victor sulla tempra delle note, ma tolto questo, il protagonista avrebbe potuto essere chiunque altro senza che la storia ne subisse un trauma.

«Si parte dal Do. Suono pieno, definito, coraggioso, che introduce un dialogo e che, a volte, lo completa, arginandolo tramite un punto. Il resto è un vizio, uno sfizio da togliersi se, sulla lingua, i gusti non rischiano di mischiarsi. Il Re e il Mi mantengono con lui buoni rapporti di vicinato, non sono né troppo curiosi né troppo ribelli. Salgono la scala com’è naturale ci si aspetti da loro, con pazienza, calma e misura, senza anticipare o forzare i tempi. Fa e Sol li battono in coraggio e baldanza: il tono del discorso si assottiglia, le sensazioni si acuiscono, brancolando nell’eccitante senso d’attesa che il La ghermisce e nutre, comodo sotto la vetta del Si. Il Si. Una mera illusione. Ci arrivi, vedi e senti cime e fondamenta vibrare di leggero, ma intenso, piacere al suo primo soffio.

 

 

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