Review Tour e recensione: “Hannah (Kaelan Vol. 2)” di Cinzia La Commare
Buongiorno Fenici oggi partecipiamo al review Tour del libro “Hannah (Kaelan Vol. 2)” di Cinzia La Commare che la nostra Aina ha recensito per noi
E mi cullava, come fossi una bambina o qualcosa di prezioso. Io non mi sentivo né l’uno e né l’altro: avevo perso la mia ingenuità ed ero certa di non valere un granché, dopo che l’urgano Kaelan mi aveva investita lasciando solo macerie.
Un romanzo capace di dare una picconata al genere dark, e consiglio assolutamente a tutte le amanti di questi libri, come me, ma anche a chi vi si oppone con forza, di leggere questa dilogia con le antenne dritte. Credo di non esagerare affermando che questo romanzo ha rimesso in prospettiva la mia chiave di lettura sulle trame di questo tipo.
Leggere Hannah è stato come essere disarcionata: ho dovuto rivalutato la mia opinione su Kaelan (il primo volume), la cui recensione ho scelto di pubblicare nella sua versione originale; un punto di vista che ora non potrei più condividere.
Kaelan sembrava un romanzo YA, sembrava un erotico, ma in realtà era un dark psicologico. Un dark mostrato dall’inizio alla fine attraverso il punto di vista maschile, quello dell’uomo che, in questo genere letterario, molte volte è privo di un equilibrio mentale o emotivo.
Un uomo che può perdere il controllo a causa dei suoi istinti, della sua eccessiva emotività, dell’incapacità di gestire le proprie emozioni interiori, di una fragilità che lo destabilizza così tanto da portarlo a esplodere scatenandosi sull’altra persona. Un uomo a cui siamo quasi assuefatte.
Nei romanzi dark, i gesti non sono violenti, ma intensi; uno scatto d’ira diventa un impulso incontrollato. Cambiare il linguaggio dà a questi uomini una seconda opportunità. Usiamo un termine più dolce, significativo, il che ci rende più empatiche nei loro confronti, comprensive… così le violenze finiscono per essere scusabili.
Non solo. Di solito finiamo per attribuire a questi gesti “intensi”, “emotivi”, “incontrollati” addirittura il significato di amore: un amore potente, intenso, totalizzante, possessivo. Lo crediamo anche se un uomo è incapace di esprimerlo, anche se a parole dice il contrario, anche se il suo modo di fare è teso a rendere la protagonista femminile succube, a riempirla di sensi di colpa (perché è lei che l’ha sedotto fino a farlo innamorare, e quindi è per lei, che ora si sente confuso e fragile).
Un uomo che ama con potenza, che anche se ha reazioni esplosive, poi chiede scusa, ed è quindi ancora più degno di amore, no?
E la donna? La donna nei dark è pronta a perdonare, a giustificare, a comprendere. A maggiore ragione noi lettori, che abbiamo potuto essere nel punto di vista di Kaelan, nella sua testa, e che riusciamo a vedere tutti i suoi conflitti, a percepire la sua frustrazione sessuale: giustifichiamo, comprendiamo, ci accontentiamo, e addirittura speriamo in un ricongiungimento e nel lieto fine.
Non solo, sposiamo le sue tesi e siamo pronte a colpevolizzare la protagonista femminile. Comprendiamo che lui la sta facendo a pezzi, ma crediamo nel fatto che solo lui possa rimetterli insieme.
Questo è stato leggere Kaelan, volume 1.
Hannah stravolge tutta questa visione, perché rimette in linea il punto di osservazione: gli uomini violenti sono sempre violenti, non è amore quello che è ossessione o senso del possesso, non è amore qualcosa che viene fatto senza delicatezza, non è amore se una persona non concede intimità, non scambia confidenze, se mantiene una doppia vita (per non dire tripla), se giustifica il tradimento con la sua frustrazione, se usa violenza fisica o psicologica, rendendo succube la donna, umiliando, svilendo, incolpando.
Hannah ci mostra come gli effetti di una relazione malata possano diventare traumi che si trascinano nel tempo.
Da brivido, Hannah.
Perché fa riflettere, perché risulta essere un romance tenero, anche se attraversa le tinte autodistruttive di un romanzo psicologico di formazione, di un dark in cui il carnefice non è mai stato lasciato andare del tutto.
Il rapporto con Kae viene rievocato in modo sapiente dalla vittima in piccoli flashback a intensità crescente, piccoli momenti mirati, non invadenti, inseriti nei punti salienti senza mai annoiare. Pochi, significativi, sempre più approfonditi, fino a svelare quello che è stato, per Hannah, il finale del primo romanzo: perché era tornata da lui, cosa intendeva dire, cosa è successo, perché ora sta così male.
Tutto questo si intreccia a una storia d’amore delicata e sempre più spessa. Se all’inizio abbiamo una donna spenta, che non prova più niente dopo aver sofferto, ed è bloccata, la trama si sviluppa attraverso l’autolesionismo, il tentativo di dimenticare e di provare qualcosa – qualsiasi cosa, anche sofferenza – per sbocciare nel tepore dell’affetto, dell’amicizia, nella consolazione e quindi nell’amore.
Non ho ignorato il modo catartico con cui Hannah, inconsapevolmente, trova rivalsa sulle figure maschili che le stanno attorno: con il maturo psicologo ma anche con il giovane Roy, Hannah tenta di replicare le tecniche seduttive insistenti che la facevano sentire potente, dominante nei confronti di Kaelan e che hanno dato inizio al terribile primo episodio. Neppure questo è amore.
Servirà un percorso complesso per portarla a capire la differenza tra una relazione sbagliata, malata e una sana.
In questo romanzo assegno due fiamme di seduzione. Il sesso che troviamo in Hannah è minore, rispetto al primo libro, ma di migliore qualità. C’è un’attrazione diffusa che si concretizza poche volte, ma le scene intime sono dipinte con colori più vividi, sono più strutturate, più romantiche, più emotive, più sensuali. In Kaelan, forse perché viste dal punto di vista disturbato di lui, le scene erano più frequenti eppure non abbastanza esplicite o perverse per raggiungere il livello di un romanzo erotico. Servivano a descrivere un personaggio che ragionava sotto quei termini e risolveva i problemi in quell’unico modo. Che basava le relazioni sul sesso, e in particolare su un tipo molto estremo, anaffettivo.
Questa dilogia è una stilettata alla nostra coscienza. È scabrosa. Non intendo riferirmi al romanzo in sé, quanto a quello che penseremo di noi stessi dopo che avremo finito di leggerlo.
Ho compreso il significato del primo libro solo dopo aver terminato Hannah. E mi sono resa conto del modo in cui ho tifato per la parte sbagliata nel momento in cui ho iniziato a rileggere le scene raccontate da lei. Ho visto quanto le mie lenti fossero deformate. Sconvolgente quanto il punto di vista focalizzato su una persona malata possa disturbare il nostro, possa renderci empatici nei suoi confronti, e renderci chiusi verso il dolore delle donne (effetto che, peraltro, nella vita reale vediamo molto spesso). Misoginia condivisa dalle stesse donne, che colpevolizzano la vittima prendendo le parti dell’uomo violento.
Hannah mi ha fatto aprire gli occhi su questo punto e, quando mi sono accorta della chiave di lettura che avevo usato per il primo libro, la stessa che ha dato luogo a tutte le richieste di happy ending che sono pervenute all’autrice, ne sono rimasta sconvolta.
Non si tratta della solita polemica morale sul genere dark romance (che di solito evito, essendo io una lettrice onnivora e ritenendo che questi libri non mi rendano moralmente deprecabile), ma uno stimolo a rivalutare noi stessi e le nostre abitudini di pensiero, quelle scorciatoie che le nostre riflessioni prendono senza avvisarci, inconsciamente.
Una lettura che ho trovato stimolante e, per certi versi, illuminante.
«Roy, non voglio…», provai a fermarlo.
Lui mi interruppe. «Cosa? Illudermi?». Un altro colpo e le marmitte scacciarono gli uccelli che erano andati a dormire sugli alberi. «Non sei tu a farlo, sono io. Lascia che mi illuda, Hannah», mi stava implorando. «Non ho niente da perdere, né tu né io ne abbiamo, ma abbiamo tutto da ritrovare e siamo troppo giovani entrambi per arrenderci alle persone che ci hanno fatto del male, che ci hanno cambiati. O per soccombere alle beffe della vita».