Recensione: “L’arte dell’henné a Jaipur” di Alka Joshi
Titolo: L’arte dell’hennè a Jaipur
Autore: Alka Joshi
Editore: Neri Pozza
Genere: Storico
Data di pubblicazione: 11 Marzo 2021
Jaipur, 1955. La giovane Lakshmi Shastri si è lasciata alle spalle una vita di povertà e un marito violento per diventare una delle artiste dell’henné più richieste in città. Prima che arrivasse a Jaipur, per farsi decorare mani e piedi le sue clienti si rivolgevano a donne Shudra, che si limitavano a tracciare semplici puntolini, trattini e triangoli, quel poco che bastava per procurarsi i loro magri guadagni. Lakshmi offre invece una gamma di motivi assai più complessi, capaci di rispecchiare le storie delle donne alle quali sono destinati.
I suoi vividi ghirigori color cannella non hanno mai deluso le sue clienti che, con il tempo, sono arrivate a convincersi che il suo henné abbia il potere di riportare nel loro letto un marito scapestrato, o di indurre il loro ventre a concepire un figlio. Ecco perché Lakshmi può pretendere una tariffa dieci volte più alta del prezzo richiesto dalle donne Shudra, e ottenerla.
Con il tempo è arrivata perciò assai vicina a conquistare ciò che desidera: una casa tutta sua, con pavimenti di marmo, acqua corrente a volontà e una porta d’ingresso di cui essere la sola ad avere le chiavi. Un posto nel quale poter accogliere i genitori e chiederne il perdono per essere fuggita dal marito, rovinando così la loro reputazione.
Un giorno, però, il passato bussa alla sua porta: suo marito è riuscito a rintracciarla, e ad accompagnarlo c’è una ragazzina sconosciuta, una tredicenne con gli occhi enormi, di un azzurro che vira al verde, iridescenti come le piume di un pavone. È Radha, sua sorella. Una sorella di cui la giovane donna ha sempre ignorato l’esistenza. Una sorella, soprattutto, destinata a portare uno scompiglio tale nella vita di Lakshmi da metterne a repentaglio carriera e reputazione.
Romanzo che ha ottenuto uno strabiliante successo al suo apparire negli Stati Uniti, L’arte di ell’henné a Jaipur è il vivace e avvincente ritratto una donna che, nell’India degli anni Cinquanta, lotta contro antichi pregiudizi e convenzioni per conciliare la propria realizzazione personale con il rispetto e l’amore per la famiglia.
Il romanzo, ambientato nell’india degli anni ’50 appena dopo l’indipendenza dagli inglesi, racconta di una donna che ha fatto una scelta tragicamente femminista (lasciare un marito violento per rifarsi una vita) in una società ancora oggi molto tradizionalista, divisa in caste, e in cui la reputazione significa tutto.
“In India, la vergogna non colpisce mai un singolo individuo. L’umiliazione si diffonde con la stessa facilità del grasso sulla carta oleata, e contamina l’intera famiglia, fino agli zii, alle zie, ai nipoti, ai cugini più lontani. Ci pensano le malelingue a spargere la voce. ”
Lakshmi, la protagonista, ha il nome di una divinità portatrice di fortuna e ricchezza, e incarna simbolicamente tutto questo nel momento in cui inizia la storia, 13 anni dopo l’abbandono del marito e della famiglia: ha imparato un mestiere, quello di disegnatrice di henné e dispensatrice di erbe curative (oggi sarebbe chiamata fitoterapeuta), e si è fatta un buon numero di conoscenze altolocate e potenti che le consentono di arrivare perfino al Maharajah e alla Maharani, sua moglie. Partita dal nulla, è arrivata ad avere una casa di proprietà e l’agenda piena di appuntamenti. Sembra essere all’apice, quando da un giorno all’altro compaiono alla porta il marito e una ragazzina tredicenne, Radha, che dichiara di essere sua sorella.
Radha è da sempre tacciata, dalle malelingue del piccolo villaggio da cui proviene, di essere portatrice di malaugurio. Questa “cattiva sorte”, in diversi modi, inizia a interferire con il successo che Lakshmi stava vivendo, portando al contempo, però, anche una riflessione sulla sua vita artefatta e a rivalutare aspetti più significativi e profondi come i legami familiari, l’onestà intellettuale, l’essere se stessi senza doversi piegare a compiacere le proprie clienti, il fare del bene senza avere fini di lucro.
“Forse Radha era la penitenza per la vergogna che avevo inflitto alla mia famiglia. I miei genitori, mia suocera e Hari dovevano essere stati ignorati ed emarginati dopo la mia fuga. Disprezzati, esclusi dalle cerimonie religiose, dai matrimoni, dalle feste per i nuovi nati, dai funerali. Il senso di colpa m’infiammò la faccia.”
La protagonista è dotata di una forza, una dignità, una saggezza e un’empatia notevoli, che le permettono non solo di resistere nonostante le difficoltà, ma di avere successo nel comprendere e dare sollievo morale e psicologico, oltre che fisico, alle sue nobili clienti, anch’esse vittime, nonostante la casta privilegiata, delle limitazioni dovute al mantenimento dello status e al loro ruolo di donna in una società patriarcale.
Non si tratta di una storia d’amore ma di un romanzo di formazione con ambientazione storica ed esotica, pervasiva e totalmente diversa dal comune. L’atmosfera indiana è avvolgente, quasi troppo, quando abbonda di termini sconosciuti senza rimandi al glossario (che ho scoperto ahimè solo a fine lettura, nell’ultima ventina di pagine).
“Dall’altra parte della strada, una fioraia creava abilmente una serie di allegre mala con i suoi tagete.”
È una storia dagli sviluppi lenti ma che via via diventano più intricati, andando a creare una situazione da cui è difficile uscire, a causa di pregiudizi, malelingue e una serie di usanze e tradizioni che legano e privano di libertà, lavoro e quindi sussistenza chi ne è vittima.
È uno spaccato di realtà davvero interessante, che attraverso la storia di alcune donne ha reso perfettamente l’idea della difficoltà del mantenere gli equilibri sociali necessari per districarsi in queste reti di amicizie, spintarelle, tangenti, dove la facciata e la rispettabilità rappresentano più della sostanza delle persone, e delle donne in particolare.
“Non riesco a dormire. Ho sempre mal di testa. Se avessi la possibilità di tenere il bambino, lo farei. Ma non so se… se è figlio di mio marito».
Molte delle donne che assistevo su richiesta di Samir avevano relazioni extraconiugali.
«Signora, non occorre che mi spieghi nulla».
Joyce Harris si chinò verso di me e con mio sbigottimento mi afferrò una mano. Fissai la pelle pallida, tesa sulle nocche, la fede nuziale troppo larga, lo smalto rosso acceso. Si aspettava quello che non ero in grado di offrirle. Perdono. Assoluzione. Ma io ero solo un’estranea.”