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Recensione: “Il principe triste”, di Thea Bricci

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Il destino regala a Denis splendidi tratti efebici e androgini, ma una situazione famigliare sfortunata, segnata dalla morte prematura dei genitori. Il ragazzo trova nella droga e nell’amore per la musica l’unico modo di soffocare il dolore, finendo per oltraggiare il suo dono, facendosi merce, vendendo il proprio corpo al miglior offerente, finché un facoltoso amante, cultore di arte classica, trovando in lui l’incarnazione di un ideale di bellezza, gli regala affetto e la possibilità di una vita più agiata.

Quando, tuttavia, giunge il vero amore, Andrea, il giovane leader di una rock band, Denis deve fare i conti con nuove struggenti sensazioni, che rischiano di ricondurlo nell’abisso da cui era faticosamente uscito.

La storia è incentrata sulle vicende di Denis, denominato il principe triste per la sua aria malinconica, l’aspetto fragile e delicato e una bellezza quasi eterea, senza una famiglia alle spalle, dedito all’uso di droga e alla prostituzione, prima per mantenere la sua dipendenza, da cui si libera “improvvisamente”, e poi per mantenere se stesso. Unico punto fermo è la musica, che ama incondizionatamente e in cui ha grande talento ma che non ha avuto la possibilità di sviluppare (c’è anche da dire che anche quando l’ha avuta non l’ha fatto).

Denis viene notato e preso sotto l’ala protettiva da Edoardo, uomo molto ricco, amante dell’arte in tutte le sue forme, sposato e con un figlio più o meno della stessa età di Denis, che vede nel principe il suo ideale di bellezza classica.

Nel rapporto si inserisce anche Corrado, il figlio di Edoardo, rampollo viziato, circondato da un’intera corte che lo elegge suo leader, senza sviluppare con i suoi componenti veri rapporti di amicizia, che, per quanto “malata”, sviluppa solo con il principe.

Partecipando ad un concerto, Denis incontra Andrea, capogruppo di una rock band, che gli fa provare sentimenti che mai ha provato nella sua vita; l’amore, questo sconosciuto, fa capolino nel suo cuore, sconvolgendo il suo mondo.

Questa la sintesi della storia, che però devo ammettere, mio malgrado, non è riuscita a coinvolgermi. L’autrice, a cui riconosco senza dubbio alcuno una notevole cultura classica, sia musicale che artistica, e un italiano ineccepibile, non ha saputo farmi entrare in empatia con i personaggi.

La descrizione minuziosa di opere d’arte e un linguaggio fin troppo forbito e formale hanno appesantito molto la narrazione, creando una sorta di barriera impenetrabile; mi ha dato come l’impressione che per l’autrice sia molto più importante la forma che non i sentimenti e le emozioni, la sensazione era quella di una narrazione fredda e distaccata, una sorta di lectio magistralis sull’arte, soprattutto nella prima parte.

Ammetto tranquillamente di non avere una grandissima cultura classica e, mancandomi le basi, probabilmente non sono entrata in sintonia con il libro e i suoi protagonisti. Magari rileggendolo fra qualche mese e cercando di conoscere meglio le opere che vengono citate potrei cambiare idea, ma per il momento non mi sento di consigliarne la lettura a cuor leggero, si tratta di un libro che ha bisogno dei suoi tempi per essere letto.

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