Recensione: “Finchè c’è musica” di Sarah Baruk
1946. La guerra è finita da qualche mese quando la piccola Alice incontra per la prima volta sua madre. Ha trascorso otto anni senza sapere chi fossero i suoi veri genitori, vivendo nascosta in una fattoria della campagna francese insieme a Jeanne, la balia incaricata di prendersi cura di lei fino al loro ritorno. Ora deve lasciare un mondo pieno di affetti per seguire una donna di cui non sa niente e che non è forte ed elegante come se l’era immaginata, ma silenziosa, dura, chiusa in se stessa, e con uno strano tatuaggio sul braccio. Parigi è caotica, rumorosa, Alice si sente subito spaesata. Ma è l’incapacità di rapportarsi con la madre che la fa soffrire di più: è evidente che durante la guerra Diane ha subito dei traumi (“tua madre ha fatto grandi cose” le aveva raccontato un giorno Jeanne) e ora è in preda a continui incubi notturni. Ma proprio quando madre e figlia cominciano a stabilire una connessione, Diane si ammala di tubercolosi e la vita di Alice viene di nuovo stravolta: la madre viene ricoverata e l’assistente sociale le dice di aver rintracciato suo padre… È l’inizio di un importante viaggio che da Parigi la porterà a New York: grazie all’incontro con lo zio Vadim, cieco e scorbutico, ex reporter di guerra che ha girato l’Europa, Alice scoprirà che il suo passato nasconde un segreto imprevisto e si lascerà per sempre l’infanzia alle spalle. Con una sensibilità infinita Sarah Barukh dà voce ai sentimenti e alle emozioni di una bambina che attraversa uno dei periodi più tumultuosi della Storia. Una fantastica ragazzina capace di trovare la propria strada in un mondo devastato dalla guerra e di trasmettere agli adulti la sua incrollabile fiducia nel futuro.
Una bella storia ambientata in un periodo molto difficile della nostra storia, con protagonista una ragazzina di 10 anni di nome Alice. Durante la narrazione vengono analizzate le sue vicissitudini e l’evoluzione della sua personalità.
Innanzitutto, appare chiaro sin da subito il clima di sospetto che la circonda nel suo piccolo e provinciale paesotto di campagna: è senza genitori, vive con la balia. La sua esistenza galleggia sulle bugie e questo le provoca, senz’altro, una sindrome dell’abbandono. La sua vita subisce numerose scosse prima fra tutte il ritorno della madre, che lei non riconosce e non ama, che la strappa alla sua vita tranquilla per portarla come un pacco postale a Parigi. C’è certamente di che impazzire! Ma la nostra eroina, con il tipico spirito di adattamento che caratterizza i bambini, cerca uno sprazzo di luce nella nebbia della sua vita e piano piano inizia a ricostruire un rapporto con la madre. È dura, la donna è distrutta, sebbene la bambina non riesca a comprenderne le ragioni, si intuisce chiaramente che la sua personalità è annientata a causa della prigionia in un campo di concentramento.
Come se non bastasse la piccola Alice è costretta a subire un altro stravolgimento nella sua routine: la madre si ammala gravemente, quindi viene affidata al padre. Quest’ultimo vive in America, è sposato e molto facoltoso, ma tutti in casa ignorano la ragazzina, che sente questa indifferenza come un ulteriore attacco alla sua vita.
Solo con lo scorbutico zio, invalido di guerra, la bambina costruirà un rapporto. Questa è la parte migliore di tutto il romanzo e quella che ho preferito. Molto divertente e profonda la loro amicizia che si evolve a partire dalla metà del libro in poi, portandoli addirittura a progettare e a mettere in atto un piano di fuga…
Scorrevole e con una buona tensione narrativa, il libro si legge tutto d’un fiato, nonostante il tema più volte sfruttato. Unica nota stonata, che mi ha poco convinto, è il racconto dei pensieri della bambina che appaiono troppo evoluti per appartenerle, talvolta davvero poco consoni alla sua età.
«…Quanto tempo era passato? Aveva sofferto così tanto perché pensava di non essere normale. Tutte quelle strade, quelle navi, quei treni in attesa di andare da qualche parte dove la vita avesse un senso…»