Recensione in Anteprima: “16 ottobre 1943” di JD Hurt (Damned Soldiers Series #1)
Care Fenici, oggi Nayeli ci parla in Anteprima di “16 ottobre 1943” di JD Hurt (Damned Soldiers Series #1)
La mia vita comincia a Roma in un elegante palazzo di fronte al Circo Massimo nel 1926, ma trova compimento il 16 ottobre del 1943 al Portico D’Ottavia, nel ghetto di Roma. Non scordatevi questa data. È il giorno in cui l’esistenza così come la conoscevo è terminata per sempre. È il giorno in cui l’anima di un’ebrea ha smarrito i confini nel vuoto denso di sangue di un nazista.
Io sono Dalia Algranati. Sono quell’ebrea. Lui è Christian Schlesinger. Ed è quel sangue.
La mia vita comincia nel 1924 fra i boschi della Baviera, viene spezzata sei anni dopo nello stesso luogo per poi frammentarsi ancora in Italia il sedici ottobre del 1943 al ghetto ebraico di Roma. Vorrei scordare questa data, ma non posso. È il giorno in cui la guerra del mondo è divenuta aspra battaglia nel mio corpo. È il giorno in cui il sangue di un’ebrea ha colmato di veleno le vene di un nazista.
Io sono quel nazista. Christian Schlesinger. E lei è il veleno. Dalia Algranati.
“Sedici Ottobre 1943” è un historical dark romance autoconclusivo che narra la storia di Dalia. Fa parte della “Damned Soldiers Series”. Per il forte impatto emotivo delle vicende narrate che fanno riferimento ai terribili eventi accaduti durante la seconda guerra mondiale si consiglia la lettura ad un pubblico adulto e consapevole. Nel romanzo sono contenute scene violente e situazioni inquietanti che potrebbero turbare il lettore.
Cosa c’è di più “dark” di un diciannovenne Wehrmacht che vuole “ottenere i suoi due ebrei”? Anche stavolta la Hurt ci porta in un romanzo terribilmente oscuro, in un sentimento carnale storicamente impensabile. Eppure il colore che domina è il “grigio”. Il grigio del seguire gli ordini senza dover ragionare, della propaganda che manipola il pensare comune, degli schieramenti politici opposti, di cui solo uno rimane perdente e soggetto al giudizio dei vincitori. Grigi “storici” che si mescolano a quelli individuali, dove la rabbia, la vendetta, la frustrazione si mescolano al senso di colpa, a un’umanità tenuta in gabbia da alcool, droga, sesso e violenza.
Nonostante l’epoca in cui è ambientato, questo non è un libro sugli ebrei, né sulla guerra. È la storia di una passione nata per errore, nel tempo sbagliato, nel luogo sbagliato, per la persona sbagliata.
È un romanzo che ci mostra anche come le persone sono incastrate fra ingranaggi troppo grandi per poter dare un contributo e cambiare il corso delle cose, e di come, tuttavia, le scelte individuali possono avere un impatto determinante sulla vita dei propri affetti.
La guardo bene in viso mentre la insulto. E mi sento…
Peggio. Ma anche meglio.
Le labbra del saggio che l’ha invitata ad entrare divengono una linea sottile, quelle di Shutz il ghigno di uno sciacallo. Ma sono gli occhi di Dalia ad ipnotizzare ogni molecola della mia attenzione.
E non perché sono belli, o stizziti.
In essi vi è come un calore fluttuante e febbrile che mi sfida.
Quello che dice offende ogni parte ariana di me.
Purtroppo, al contempo, mi esalta. Raggiunge il guerriero che vibra nel mio corpo.
In ogni romanzo, e in particolare nei dark romance, cerco sempre di trovare la massima credibilità nei comportamenti e nelle scelte dei protagonisti, e JD Hurt anche stavolta mi ha convinta. È un colpo di fulmine, una passione sfrenata che, anche se improvvisa, è pienamente credibile.
La trama ci parla di un colonnello che ha già una scalfittura nella sua armatura ideologica. È un nazista convinto, non perché si sia lasciato sedurre dalla demagogia di Hitler, ma perché è quello che gli ha insegnato la sua storia personale. Quando però ha avuto la consapevolezza di quello che stava facendo, e ha finalmente “visto” le vittime come persone e non più come “ratti”, allora ha avuto i primi rigurgiti di coscienza.
L’incontro con una ragazza ebrea, Dalia, non fa che allargare questa crepa nella sua maschera di disumanità, dentro la quale si insinua l’attrazione, scatenando le sue resistenze razionali e sensi di colpa.
Gli stessi conflitti nascono in lei, che non vuole concedere nessun premio al suo aguzzino, e non vuole riconosce alla persona che dovrà dargli la morte nessun potere sul suo corpo.
Nonostante questo, tra loro c’è una scintilla che deve risolversi in un incontro carnale. Anche se non troveremo tenerezze, non si tratterà neppure di sesso brutale. Avremo un sesso sporco, di costrizione, tipico dei dark, ma anche fatto di desiderio che, per quanto non pienamente accettato né spontaneo, allontana il concetto di violenza. Non è mai unilaterale, e comunque rimane rispettoso del corpo immacolato di Dalia.
Anche se la storia è credibile, credo che su alcuni dettagli l’autrice abbia calcato un po’ troppo la mano, ad esempio circa il tipo di perversione della madre di lui. Ho notato anche qualche sbavatura nelle coincidenze e negli incastri dei pezzi del puzzle, come le tempistiche per il chiarimento tra Dalia e Giacomo o schemi che si ripetono troppe volte, il modo in cui vengono scoperti ogni volta dopo il sesso, ad esempio.
Viola la bocca con una delicatezza che è la più brutale delle prevaricazioni.
Ed io ci provo ancora. Serro più forte le labbra. Divengo cieca, muta, ma non riesco, proprio non posso divenire sorda.
In questo romanzo non si parla mai di amore, si parla di carne, di pelle, di legame, del riconoscimento dell’altra propria metà in modo ineluttabile.
Dalia è una ragazza ingenua e allo stesso tempo forte, che ancora non sa cosa vuole, è ancora alla ricerca della propria identità. È oggetto dell’ossessione di Christian, e non compie mai un gesto eclatante per andargli incontro. Lontana dal suo carnefice la sua attrazione si smorza, e lei sembra stare meglio.
Ma quando sono insieme Dalia sente il loro legame, accetta Christian nei suoi gesti più terribili, e tuttavia, lo rifiuta per quelli perpetrati dalla razza tedesca. Razionalmente è assurdo che lui venga rifiutato per colpe di altri, ma calando la situazione nell’orrore dei lager si comprende quanto sia difficile amare qualcuno che sia connesso a quello scempio, anche se non colpevole direttamente, anche non volendolo giudicare.
Questo romanzo non vuole essere scabroso, né si attarda in inutili tira e molla, però riesce in qualcosa di sottile, cioè rendere difficile a Dalia, e quindi a noi lettori, accettare l’idea di un rapporto con un nazista, sfidando la normale rapidità con cui, in questo genere letterario, il carnefice viene perdonato e incensato. La realisticità della situazione rende questo passaggio molto sofferto, come è giusto che sia.
Ma poi la vedo.
La ragazza della foto.
Gli occhi colore dell’inverno, la bocca come una goccia di luna, e una pelle ambrata che sembra urlare: io ci sono, respiro per metterti in difficoltà. Io ti umilio!
La Hurt è riuscita a rendere perfettamente la sensazione che gestire il “dopo” sia qualcosa per niente facile. Tornare alla normalità e vedere le cose col senno di poi, dover giustificare le proprie scelte, gli errori a cui non si riuscirà mai a fare ammenda. Accettare sé stessi, di amare nonostante tutto, nonostante l’oscuro. La consapevolezza, per chi è stato carnefice, che il “dopo” non è mai rinascita.
E poi ci sono i giudizi della Storia, i vincitori che giudicano i vinti, con i loro “pre”giudizi e i loro interessi finalizzati alla carriera, all’opinione pubblica, all’immagine politica.
Nel “dopo”, i grigi non valgono più come durante la guerra: fare del proprio meglio in una situazione terribile poteva sembrare un gesto eroico, ma il proprio meglio, all’interno del macchinario della Storia, non è mai abbastanza, perché gli ingranaggi sono troppo grandi; e poi si aggiungono gli altri più a misura d’uomo, psicologici-culturali-storici, in cui ognuno è sempre incastrato.
Questo ci porta al tema della colpa, alla difficoltà di fare giustizia, di perdonare e di perdonarsi.
“Sono talmente debole da fare anche questo” incornicia le mie gote con le dita.
Mi bacia.
Non è il solito divorarsi. Non è mordersi o cercarsi fino a farsi male.
È un volo di uccelli.
È la carezza del mare sulla battigia.
Sono i nostri sapori che divengono un aroma potente.
È un addio.
Il libro procede con capitoli in prima persona dal tono drammaturgico molto coinvolgente, ma che rallenta la narrazione, più dei precedenti romanzi.
Ho ritrovato uno stile che mi piace molto. Niente dialoghi secchi e colloquiali nel tipico stile all’americana, ma declamazioni pittoresche, soprattutto quando si tratta di lunghi monologhi che parlano di emozioni e che fanno introspezione su sé stessi; forse risultano un po’ teatrali però funzionano e, una volta entrati nel mood dello stile drammatico un po’ calcato, che è la cifra stilistica di JD Hurt, ci rendiamo conto che non è una cosa pacchiana, ma è molto gradevole, stimolante, toccante.
La lettura è infastidita invece dalle “d” eufoniche: continui gessi sulla lavagna che intralciano parecchio.
Sul finale, niente spoiler, farò il possibile… credo che il romanzo abbia un po’ ceduto, si prolunga troppo, perde intensità proprio quando, a un certo punto, c’è un netto cambio di scena, come un passaggio da un primo a un secondo atto. Con poche passate di penna si liquida l’ambientazione precedente, non solo geografica ma anche affettiva, e ritroviamo la nostra protagonista in tutt’altra cornice senza che sia mostrato come questo sia avvenuto e perché.
C’è moltissima carne al fuoco, forse non tutta necessaria, sia sotto il profilo Storico che su quello narrativo, e la relazione tra i protagonisti risulta un po’ sacrificata. Mi è mancato un vero e proprio climax, ho avuto invece la sensazione di un finale a balzelloni, tra una spiegazione e l’altra, che andavano a sciogliere i misteri delle vicissitudini ancora non chiare. E forse sono proprio questo eccesso di informazioni e di resoconti esplicativi che non ho apprezzato. Avrei preferito un singolo colpo di scena, senza anticipare dettagli interessanti per il secondo romanzo.
È indubbiamente un romanzo complesso che è stato gestito in modo molto capace. Tuttavia ci sono aspetti che non sono ancora all’altezza di quello che mi aspettavo da una JD Hurt più matura, che avrebbe dovuto mostrare un salto di qualità professionale; non voglio parlare della cover.
Lo stile rimane buono molto, intenso ma, rispetto alla precedente serie Dark Necessities, qui si notano di più le imperfezioni, la lentezza. Forse a causa del tema complesso, che comunque è stato affrontato in modo egregio.
Perché un tema così difficile si è riusciti a non banalizzarlo, a non schiacciarlo, a non mettersi né dalla parte dei buoni né dei cattivi. La Hurt è riuscita a non schierarsi, a non sguazzare nelle perversioni, a mostrare le sfaccettature sia parlando di quelle storiche, che di quelle personali dei personaggi.
Tuttavia, come dicevo, un aiuto professionale avrebbe potuto limitare le sbavature e dare una mano su certi aspetti che scricchiolano, piccole incoerenze, e magari aiutare a rendere il finale più accattivante, veramente concludente, epilogo di qualcosa di sofferto.
Concludendo, è un romanzo che fa riflettere, che non si limita alla storiella tra due amanti, e che merita di essere letto, soprattutto oggi, se vogliamo non commettere mai più gli stessi errori della nostra storia.
È bella. È carne. È sangue. È nervi.
È una persona.
Di colpo capisco di non avere mai conosciuto una persona più persona di lei.