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Recensione: “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito

Titolo: L’acqua del lago non è mai dolce
Autore: Giulia Caminito
Editore: Bombiani
Genere: Narrativa contemporanea

Odore di alghe limacciose e sabbia densa, odore di piume bagnate. È un antico cratere, ora pieno d’acqua: è il lago di Bracciano, dove approda, in fuga dall’indifferenza di Roma, la famiglia di Antonia, donna fiera fino alla testardaggine che da sola si occupa di un marito disabile e di quattro figli. Antonia è onestissima, Antonia non scende a compromessi, Antonia crede nel bene comune eppure vuole insegnare alla sua unica figlia femmina a contare solo sulla propria capacità di tenere alta la testa. E Gaia impara: a non lamentarsi, a salire ogni giorno su un regionale per andare a scuola, a leggere libri, a nascondere il telefonino in una scatola da scarpe, a tuffarsi nel lago anche se le correnti tirano verso il fondo. Sembra che questa ragazzina piena di lentiggini chini il capo: invece quando leva lo sguardo i suoi occhi hanno una luce nerissima. Ogni moto di ragionevolezza precipita dentro di lei come in quelle notti in cui corre a fari spenti nel buio in sella a un motorino. Alla banalità insapore della vita, a un torto subito Gaia reagisce con violenza imprevedibile, con la determinazione di una divinità muta. Sono gli anni duemila, Gaia e i suoi amici crescono in un mondo dal quale le grandi battaglie politiche e civili sono lontane, vicino c’è solo il piccolo cabotaggio degli oggetti posseduti o negati, dei primi sms, le acque immobili di un’esistenza priva di orizzonti.

 

 

 

Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia…

 

 

 

Questo romanzo è una storia sbagliata, una storia limacciosa come il fondo di un lago da cui si tenta di emergere senza riuscirvi. Un lago le cui acque non sono mai dolci, ingannevoli, illusorie a tratti promettenti, ma che non riescono mai davvero a essere dolci. 

Intorno a un lago si snodano le vite dei vari personaggi di questo libro, ove primeggiano sicuramente le figure femminili, delineate a perfezione o appena accennate, eppure mai totalmente definite. Scivolando sulle pagine osserveremo le vite scorrere, a volte sorrideremo, altre ci sentiremo impotenti, altre ancora ci arrabbieremo vedendo volgere la narrazione verso un epilogo inatteso che lascia un certo amaro in bocca. 

I personaggi principali di questo romanzo, come detto, sono due donne Antonia Colombo e sua figlia. 

La prima con i capelli di fuoco, che per amor degli affetti lascia la sua femminilità per divenire la protettrice e carceriera della sua famiglia, maschio e femmina, potere incontrastato entro le mura domestiche e guerriera instancabile verso le brutture di un mondo che avverte, spesso a ragione, come ostile. Vuole insegnare ai suoi figli a battersi, non ha nessuna fede, ma crede nella giustizia sociale in senso astratto. Ama i suoi due bambini, ma il suo carattere di fuoco, genererà i semi della tragedia della sua vita finendo per segnare indelebilmente anche le loro vite.

La figlia è la voce narrante, il cui nome sfugge fra le righe del libro, con capelli di fuoco come la madre ma, al contrario di Antonia, raramente chiamata mamma, arde di un fuoco che la consumerà. Un lume che indica una via eternamente sbagliata, o forse un destino a cui giunge spinta da quella donna che lei stessa definisce disfunzionale o dal suo stesso alter ego che, con lampi improvvisi, appare mischiare di nuovo le carte in tavola.

Il resto della famiglia è come un coro di voci, figure di contorno, come uno sfondo che sfiora la storia, ma non vi lascia mai un segno: c’è Mariano, diverso e uguale a sua madre; c’è Massimo, il padre non padre, il sussurro inascoltato, amato e odiato; ci sono i gemelli, piccole lucciole che con la loro luce flebile non riescono a illuminare il cupo palcoscenico del dramma dal sapore arcaico della loro sorella. 

Alla famiglia fanno da contraltare, correndo in modo parallelo, le figure esterne. Amiche, antagoniste, amanti e amate dalla protagonista ma, per quanto possano essere angeliche o demoniache, nessuna di queste riesce davvero a legarsi a lei, immersa in un limaccioso stato emotivo che ricorda tanto il lago del titolo.

Il libro è ambientato qualche decennio fa con riferimenti storici precisi, gli scontri a Genova durante il G8, la caduta delle Torri Gemelle, eppure la narrazione sfiora solo la nostra vicenda, fatta di piccoli eventi, alieni alla grande storia e terribilmente realistici. 

Nel complesso un romanzo scorrevole, la cui lettura risulta fluida e mai noiosa. Un’opera che solletica il senso di giustizia e a tratti diviene amara e indigesta. Una tragedia del teatro greco ai tempi nostri, che si anima di figure reali e sposa il realismo sino all’estrema conseguenza di non offrire il finale di luce, che ci avrebbe liberato l’anima, condannandoci a scoprire come le acque del lago non siano mai davvero dolci. 

In conclusione è un libro di quelli che ti resta addosso in senso non proprio positivo, come tutti quelli che offrono una foto cruda della realtà. È amaro, un romanzo che leggi auspicando il meglio, sebbene tu veda la speranza morire nello scorrere delle pagine. Non lo sconsiglierei, ma neanche lo consiglierei in tempi bui. Non alleggerisce l’anima e a tratti avvelena le sensazioni. La trama, come ammesso nelle ultime pagine dall’autrice, è intrisa di una rabbia e di un’amarezza che avvelenano la lettura e spengono ogni luce sommergendola. Un libro sicuramente pregevole per chi ama il genere che non potrà di certo restarne deluso. 

 

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