Recensione: “L’alienista” di Caleb Carr
Su Netflix la serie più attesa dell’anno
Bestseller del New York Times
NEW YORK 1896. Il reporter John Schuyler Moore riceve la chiamata inaspettata di Laszlo Kreizler – psicologo e “alienista” –, un suo amico di vecchio corso. Il dottore lo prega di raggiungerlo al più presto per assistere al ritrovamento di un cadavere. Il corpo è stato orrendamente mutilato e poi abbandonato nelle vicinanze di un ponte ancora in costruzione. La vista di quel macabro spettacolo fa nascere nei due amici un proposito ambizioso: è possibile creare il profilo psicologico di un assassino basandosi sui dettagli dei suoi delitti? In un’epoca in cui la società considera i criminali geneticamente predisposti, il giornalista e il dottore dovranno fare i conti con poliziotti corrotti, gangster senza scrupoli e varia umanità. Scopriranno, a loro spese, che cercare di infilarsi nella mente contorta di un assassino può significare trovarsi di fronte all’orrore di un passato mai cancellato. Un passato pronto a tornare a galla di nuovo, per uccidere ancora.
Si tratta della riedizione di un romanzo pubblicato nel 1994 dopo uno strepitoso successo e non è difficile intuire come mai. L’alienista contiene tutti gli elementi che rendono intrigante una puntata di CSI (adrenalina, ricerca delle prove, sfida alle regole del sistema, razionalità, psicologia e immedesimazione nel serial killer), unite al fascino degli storici, reso con una minuziosità di dettagli piuttosto abbondante.
Lo stile è colto, ricco di particolari, tutto ma non scorrevole, nelle sue frasi che durano per parecchie righe.
Il vantaggio, se amate questo tipo di scrittura, è che una volta letto questo libro non vi perderete più a New York: ci sono descrizioni dettagliate delle strade percorse per andare da un punto all’altro, con tanto di indicazione dei negozi ai bordi della strada e dei nomi delle vie.
Tutto questo ha anche il vantaggio di dare al lettore una chiarissima percezione dell’ambientazione, di aprire una finestra in quel passato e di buttarvi dentro chi legge, con immedesimazione a 360 gradi.
Come dicevo, la trama è particolarmente adatta per un riadattamento cinematografico, cosa che, infatti, è accaduta. Qualche purista degli storici ha storto il naso di fronte a qualche forzatura, ad esempio nel ruolo della prima donna ispettrice in un’epoca in cui le donne erano poco più che oggetti dediti alla famiglia, oppure nell’ eccessiva “modernità di pensiero” dello psichiatra (che allora era chiamato, appunto, alienista). Del resto, cosa sarebbe Sherlock Holmes senza qualche intuizione fin troppo geniale?
«Naturalmente lo faranno passare per matto». Laszlo continuava a rimuginare senza darmi ascolto. «Medici, giornali, giudici, preferiscono pensare che solo un pazzo possa sparare a una bambina di cinque anni. Perché, se si è costretti ad accettare l’idea che la nostra società produce individui sani di mente capaci di commettere atti del genere, si creano delle… difficoltà.»
La trama strizza l’occhio a parecchi aspetti che stuzzicano l’interesse del lettore.
Primo fra tutti, la caccia a un serial killer che ha un rituale macabro sulle vittime. Una ricerca che tiene agganciato il lettore e lo sprona a voltare le pagine mangiandosi le unghie.
In secondo luogo, il fatto che le vittime siano ragazzini dediti alla prostituzione, in particolare nel ruolo di travestiti. L’autore trova il modo di mostrarci la percezione dell’epoca rispetto a questo particolare tema, o meglio, la “non” percezione: perché il problema semplicemente non esisteva. La buona società, i giornali, fingevano di ignorare che tutto ciò esistesse, con buona pace della sorte di questi bambini comprati e venduti, usati da questi benpensanti spesso credenti (sì, un altro tema intrecciato nella trama è proprio quello religioso).
C’è la ripresa di un personaggio storico carismatico, Theodore Roosevelt, quando era ancora a capo della polizia, prima di diventare presidente degli Stati Uniti.
C’è la costituzione di un gruppo investigativo fuori dalle righe, con ampia libertà d’azione, che sfida lo status quo e adotta metodi di indagine moderni come il brainstorming sulla lavagna.
C’è poi una componente politica che intreccia, o meglio, contrappone, il desiderio di risolvere il caso e assicurare un killer alla giustizia, a finalità più bieche di ordine pubblico e di controllo delle classi sociali più povere.
Infine, c’è una grossa parte dedicata alla contrapposizione tra una vecchia e una nuova psicologia/psichiatria (a quei tempi non erano distinte, essendo il termine “pazzia” praticamente omnicomprensivo). Anche questo argomento è trattato piuttosto minuziosamente, con brevi citazioni o passaggi complicati per i non addetti. Il tutto, comunque, stuzzicante per chi è interessato all’argomento. Come dicevo in merito alla coerenza storica, anche su questo aspetto è ovvio che siano state fatte delle forzature, ma trovo che questo sia proprio l’aspetto intrigante del contrapporre in un’unica trama il nuovo e il vecchio modo di approcciare i disagi psichici.
«Ciò che vogliono è che continui ad ammazzare: l’assassino è parte integrante del loro ordine, del loro impareggiabile ordine sociale. Senza tipi come lui non hanno capri espiatori su cui sfogare la loro brutalità! Chi sono io, per interferire?»
Cosa ne penso, alla fine?
Trovo sia stata una lettura pesantuccia, soprattutto per via dello stile, ma che la complessità della trama e l’intreccio degli elementi che rendono il romanzo sfaccettato sia realizzato in modo eccellente. Avrei gustato una maggiore attenzione sull’aspetto rosa, decisamente solo sfiorato, ma (con l’avvertenza di non intenderlo come romanzo storico descrittivo) la trovo una lettura intrigante.
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