Recensione: “Le ferite originali” di Eleonora C. Caruso
Siamo a Milano, negli anni di Expo. Dafne ha venticinque anni, studia medicina, è benestante, graziosa e giudiziosa, e ha un tale bisogno di essere amata da non voler capire che la sua relazione sta andando in pezzi. Davide è uno studente di ingegneria fisica al Politecnico, vive in periferia, ha la bellezza timida e inconsapevole di chi da bambino è stato grasso e preso in giro dai compagni di scuola. Dante ha quarant’anni, è un affascinante uomo d’affari, ricco e in apparenza senza scrupoli, capace di tenerezza soltanto con la figlia Diletta. Dafne, Davide e Dante non lo sanno, ma tutti e tre hanno in comune una cosa: stanno con lo stesso ragazzo. Si tratta di Christian: ex modello, bellissimo. Seduttivo, manipolatore, egocentrico, Christian ha in sé i mostri e la magia: è bipolare, e alterna picchi di irrefrenabile euforia a terrificanti abissi depressivi, trascinando nel suo mondo spezzato anche Julian, il fratello adolescente, per cui prova un affetto eccessivo, quasi soffocante. Christian catalizza e amplifica come un prisma i desideri di Dafne, Davide e Dante, e le vite di questi quattro personaggi finiscono per intessersi così fittamente che nemmeno al momento della verità – e alla caduta che ne consegue – riusciranno a slegarsi.
Dafne, venticinquenne studentessa di medicina, precisa e assennata, vive con un costante e patetico senso di inadeguatezza, che cerca di schiacciare facendo shopping compulsivo. Dante, affascinante uomo d’affari, nasconde la malinconia del presente e il dolore del passato sotto strati di cinismo e ironia, ha una figlia di cinque anni che ama profondamente. Davide, brillante studente di ingegneria fisica dal promettente futuro, bello e timido, insicuro e inconsapevole delle proprie potenzialità. Mondi diversi, distanti anni luce l’uno dall’altro, che gravitano intorno allo stesso sole: Christian Negri. Splendido ex modello, affetto da disturbo dello spettro bipolare, usa il proprio aspetto come la chiave per arrivare a chi vuole, per corrompere, sedurre, manipolare, per distruggersi. Senza mai mostrarsi per intero, lasciando che ognuno guardi e prenda quella parte di lui necessaria a lenire sofferenze, riempire vuoti, provare sentimenti.
Lui cercava la ferita originale, nelle persone, la rottura profonda che se anche loro si indurissero, si pietrificassero, si riducessero in polvere, continuerebbe a far male. Parlava direttamente a quella, Christian Negri, per questo nessuno riusciva a resistergli.
Christian è il burattino e il burattinaio di se stesso, il ragno che tesse la tela e la mosca che vi rimane imbrigliata. Corre, scappa da ogni cosa: dalla pazzia che vuole sopraffarlo; dalla mancanza di sensazioni, perché lui ha bisogno di sentire qualunque cosa, il sesso, il dolore, l’euforia, la tristezza, il rimpianto; dall’amore e da ciò che desidera davvero. Ma nella sua corsa inciampa e cade di continuo, poi sprofonda, sempre di più, fino a che il buio lo inghiotte e l’unica rivelazione possibile, l’unico spiraglio, è il silenzio della fine.
Sul fondo del pozzo c’è il freddo senza origine, che penetra e si espande fino a prendere possesso di tutto lo spazio disponibile, e la solitudine di non essere compresi, di non essere nemmeno visti. Tuttavia le dita possono appoggiarsi alle pareti, le unghie spezzarsi, la pelle scorticarsi e farsi strada per risalire, quando c’è un motivo, una spinta, una forza, che per Christian è suo fratello Julian. Ma anziché appigliarsi per emergere, Christian lo trascina sul fondo, diventando egli stesso la causa dell’ennesimo abbandono.
Tutto sullo scenario di una Milano che nello stesso tempo è rifugio e tentazione, amata e familiare, trasgressiva e monotona, punto di fusione tra modernità e tradizione, il luogo a cui Christian appartiene. Questa Milano non è solo una città, è l’intero mondo. Quello che promette un futuro di benessere e serenità al costo di anni di sacrifici, spesi insieme ai soldi, per comprare un’istruzione che appare indispensabile, ma che alla resa dei conti deride, stritola e ingoia le vittime dell’illusione che esso stesso ha creato.
Alla fine erano sulla stessa barca, loro due, impegnati a gestire adulti che confondevano la speranza con l’illusione, il realismo con il disfattismo, la necessaria ironia – sviluppata come autodifesa – con la pigrizia.
Lo stile è spietato e sferzante, preciso come una spada, che si pianta nella mente e nello stomaco. Ogni cosa in questo romanzo provoca crepe e fratture, apre in due certezze e convinzioni prima di farne piccoli pezzi e disintegra l’ipocrisia, spargendone la polvere sulle vite dei protagonisti, sulla realtà in apparenza meschina e feroce, che spesso non lascia scampo, ma che rimane in ogni caso l’unica cosa concreta in un mare di domande senza risposta, di amarezze e ricordi che, anziché sbiadire, sembrano diventare più vividi e vitali con il passare del tempo.
Questo libro è una dicotomia, una vertiginosa oscillazione tra angoscia e tenerezza, sgomento e compassione, ma è stata una rabbia sorda che mi ha spinto ad arrivare all’ultima pagina, dove ero già preparata ad un finale drammatico e consolatorio. Invece sono stata stupita dalla scelta dell’autrice che, dopo aver completamente ribaltato i ruoli e il significato della presenza di ogni personaggio, conclude con una pennellata di speranza e il preludio di un nuovo inizio.
Non potevo che dare cinque stelle a quest’opera, che più che di fantasia mi ha dato la netta percezione di un’opera di realtà, ma a dispetto di me stessa non so se la consiglierei a tutti. Come ho già detto, questo libro è una spaccatura, una dicotomia appunto, come le cose fatte di mostri e di magia.
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