Recensione: “Il mio amore è vendetta” di Myrddin Emrys (serie Love Japan #2)
Puglia, A.D. 1236.
È sulla banchina del porto di Otranto che Aiace Percivalle, vescovo di Nardò, incrocia per la prima volta gli occhi di uno schiavo nipponico. Spinto dalla curiosità lo acquista, ma scopre ben presto che Kaito non è un tipo mansueto e che non teme la morte. Quando l’orientale tenterà di ucciderlo, capisce di non aver fatto un buon investimento e accarezza l’idea di regalarlo al suo signore, Federico II di Svevia.
Dal canto suo, Kaito giura a se stesso che prima o poi ucciderà Aiace per recuperare l’onore e la dignità di samurai persi nel momento in cui è caduto prigioniero durante una battaglia.
La loro personale guerra subirà una svolta quando il padre di Aiace lo nomina erede della famiglia, scatenando così l’ira omicida del figlio maggiore. Il giovane vescovo si ritrova all’improvviso tra due uomini che, per diversi motivi, lo vogliono morto. Decide di fidarsi di Kaito, gli rende la libertà e lo usa per tutelarsi dal fratello. Ma non è facile confrontarsi con un uomo feroce e determinato come il giapponese, tanto meno con l’attrazione che prova per lui.
Anche perché Aiace sa di non essere libero di amare…
Questo romanzo intreccia in modo molto abile una complessa vicenda familiare che stravolge la casata dei Percivalle, incastonata nella cornice storica italiana del 1200; una storia d’amore (anzi due, pur essendo solo una quella principale) ostacolata non solo dalla religione, ma anche dalle differenze razziali e di censo; e infine un delizioso approfondimento sapientemente dosato nel testo, che ci introduce alla cultura giapponese ai tempi dei samurai.
Gli mancava. Kaito gli mancava con dolorosa consapevolezza. Gli mancavano la sua determinazione, il modo che aveva di guardarlo, la sua forza, le sue mani su di sé, il modo spregiudicato di fare l’amore. Gli mancava il suo odore.
Kaito racchiudeva l’essenza di tutto ciò che andava contro gli insegnamenti cristiani e la cosa gli piaceva da morire. Era come scoprire una realtà e una libertà diverse da quelle a cui era abituato.
Il romanzo non è breve, cosa piuttosto comune negli storici e che ci consente di entrare in sintonia con l’ambientazione immergendoci lentamente. La caratterizzazione di Kaito, sia negli aspetti personali sia in quelli più ampiamente culturali, viene presentata un po’ alla volta senza infodump. Per quanto la sua visione sia lontana dalla nostra (vuoi perché i valori cavallereschi sono lontani secoli da quelli attuali, vuoi perché la cultura orientale tuttora rimane profondamente diversa da quella occidentale), l’autrice è così abile nel mostrarci l’etica e la logica dei samurai da risultare convincente perfino quando Kaito invoca il diritto a fare seppuku (o harakiri, ovvero il suicidio onorevole), cosa che, per fortuna, gli viene negata più volte fin dalle prime pagine.
«Che significa?» borbottò indispettito. «Lo hai detto o no? Hai amato qualcuno?»
«No. Io amo la mia spada. E te.»
La connotazione romantica della relazione tra i due protagonisti è inizialmente piuttosto asciutta, solo piccoli premi incastonati in una lettura piena di azione e vicende familiari, una modalità decisamente affine al ruolo e al carattere di entrambi i ragazzi. Tuttavia, una volta consolidata, essa diventa sempre più piena e coinvolgente, per arrivare su toni decisamente drammatici. Questo effetto, evidentemente ricercato, è riuscito perfettamente nello spiazzarmi durante la prima fase e nel farmi commuovere nella seconda.
Aveva bisogno di lui, della dolcezza che sapeva nascondere dietro la feroce determinazione, della tenerezza che riusciva a emanare dalla forza.
Nulla da aggiungere sullo stile, perfetto e professionale, sull’ambientazione e sulla precisione storica. Le scene piccanti sono leggere, adatte a tutti i pubblici, così come quelle di guerra o di violenza.
Un libro da cinque fenicette.
Quel bacio, dapprima gentile, innescò un crescendo di passione che li lasciò stupefatti, alla stregua di due assetati che avevano trovato l’acqua. Si staccarono un attimo per guardarsi, come se avessero voluto accertarsi di essere sempre gli stessi e un secondo dopo erano di nuovo avvinghiati, il nuovo bacio che non aveva nulla di gentile, bensì denunciava l’irruenza e la necessità di sentirsi uno parte dell’altro.