Recensione: “Un milione di maledetti motivi (Maledetto amore Vol. 2)” di Cristina bruni
Autore: Cristina Bruni
Un milione di maledetti motivi #2
Dopo le dimissioni dalla clinica di Las Vegas, Alejandro e Max hanno intrapreso il loro cammino insieme a San Francisco.
Nonostante un inizio in salita, le difficoltà sembrano appianate. Grazie a un’intensa riabilitazione e ai farmaci con cui è destinato a convivere, Alejandro ha recuperato in maniera discreta dopo il grave trauma cranico che ha segnato la fine della sua carriera da giocatore: ora allena una squadra di college football e abita felicemente con Max nella casa dei suoi sogni in riva all’oceano.
Ma Max vive in segreto il senso di colpa per essere stato la causa dell’infortunio di Alejandro e vorrebbe rinchiuderlo in una gabbia affinché non gli capiti più nulla di male. Alla notizia del suicidio di un ex giocatore della NFL affetto da encefalopatia traumatica cronica, le sue paure si accentuano come non mai.
La situazione precipita ulteriormente quando Bryon DeShaun, l’ex di Max, entra a far parte della squadra. Bryon è l’emblema di ciò che Alejandro non è più: ha un cervello perfettamente funzionante, non è uno storpio, non deve dipendere dai neurolettici per evitare di aggredire le persone ed è prossimo a far vincere a Max il tanto agognato Super Bowl.
E se Max notasse quanto lui, a confronto, sia “difettato”? E se un giorno finisse per preferire Bryon e lo lasciasse? Tra verità non dette e paure immotivate, Alejandro decide di fare l’unica cosa che non dovrebbe mai fare: smettere di prendere i suoi farmaci.
Con Alejandro che precipita di nuovo nel baratro da cui era faticosamente emerso due anni prima, riuscirà Max a fargli capire quanto lo ami prima di perderlo per sempre?
Perché non ha voglia di tirarmi un cazzotto in faccia? Io lo farei, io mi tirerei un cazzotto in faccia. Sono stanco e preoccupato ed esausto. Aggrappato a un filo sottile che si assottiglia a ogni mio respiro. Voglio dormire, voglio spaccare una finestra, farmi male, urlare, voglio Max. Voglio che tutti stiano zitti. Zitti. Basta.
Protagonisti sono Max, allenatore di football, e Alejandro, che a causa di una grave lesione al cervello si è ritirato come giocatore. Si tratta quindi di uno sport romance che ho trovato ben costruito, nel senso che alla storia d’amore viene aggiunto tutto il sapore dell’ambiente sportivo, spirito di squadra, competizione, allenamenti, sostegno reciproco tra compagni etc.
Il tema centrale è una problematica molto forte e si ispira a una causa intentata nel 2011 da cinquemila ex giocatori contro la NFL, al termine della quale è stato riconosciuto un nesso di causalità tra i ripetuti traumi contusivi dovuti al gioco del football e una grave malattia degenerativa al cervello che porta a problemi neurologici e cognitivi. Alejandro incarna questi problemi, e la trama ne mostra gli effetti sul comportamento (scatti d’ira, violenza) e sulla psiche (paranoia, depressione, demenza…).
Alejandro esce dall’ospedale dopo il trauma definitivo che ha decretato la fine della sua carriera con una terapia volta a mantenere un equilibrio nella sua mente che gli permetta di contenere gli effetti citati sopra. Ma il suo senso di inferiorità rispetto a un possibile nuovo amante di Max lo porta a fare qualcosa di stupido nel tentativo di “sentirsi di nuovo normale”, ovvero smette di prendere le sue medicine. Un passo dopo l’altro, emergono tutti gli effetti devastanti della sua malattia e questo fa sì che le sue paranoie crescano in modo esponenziale, tanto da iniziare a dubitare del rapporto con Max e ad avere esplosioni di rabbia e depressione, fino a quando tocca il punto di maggiore disperazione mettendo a repentaglio la sua vita e quella di altri.
Dal canto suo, Max incontra difficoltà nell’accettare il senso di colpa e la fatica di stare al fianco di una persona con questi gravi problemi, e a sua volta avrà bisogno di sostegno.
È una lettura carina a cui aggiudico 3 stelle e mezzo, anche se alla fine ho avuto la percezione che mancasse qualcosa e mi sono chiesta che cosa.
Il disturbo della lesione al cervello e le relative percezioni sono stati rappresentati bene (gli scatti di ira, i pensieri che ribollivano in modo paranoico, il desiderio di sentirsi normale e di smettere le medicine). Quello che manca sembra essere una maggiore sfaccettatura e profondità nelle caratterizzazioni, così come l’intensità emotiva della narrazione.
Da un lato, infatti, i protagonisti appaiono un po’ schiacciati in modo troppo semplice e simile tra loro: Max un amante praticamente perfetto che non sbaglia mai, mentre Alejandro mostra gli unici difetti in relazione alla malattia. Sembra che tutte le figure maschili (Lucy è invece una chicca meravigliosa) abbiano grossomodo le stesse caratteristiche: belli, buoni, sensibili, comprensivi… (fa eccezione Alejandro, ma questi suoi comportamenti anomali sono chiaramente da imputare non al personaggio quanto alla malattia).
Per quanto riguarda invece lo stile, a mio avviso non riesce a essere coinvolgente e intenso. Le scene di sesso non fanno eccezione, sembrano inserite perché dovute, e la narrazione risulta quindi poco potente, insomma piatta.
Premetto, a beneficio di chi intenda acquistare separatamente i due romanzi della serie, che non avevo letto il primo volume ma sono riuscita a comprendere appieno la storia. Grazie a questo, ogni momento narrato era per me fonte di scoperta e approfondimento, più che richiamo a scene forse già raccontate in precedenza.
Tuttavia, in questa narrazione che potrei chiamare “a fiocco di neve” (ovvero a un punto iniziale della storia sono stati via via ammucchiati altri fiocchi che raccontavano momenti presenti o passati) sono venuti a mancare le spiegazioni di alcuni eventi fondamentali. Si fa cenno a una relazione nata faticosamente e a sensi di colpa per il modo in cui uno si è sacrificato per l’altro, ma, aggiungendo via via tutti i pezzi del puzzle, il disegno complessivo non è stato ricomposto del tutto, continuano a mancare dei tasselli.
«A volte, quando sei alle mie spalle e ti sento arrivare ma ancora non ti vedo, capisco che sei tu perché hai quel modo tutto tuo di camminare a causa della zoppia. Un modo che mi fa sorridere e mi fa dire “questo è lui, è il mio ragazzo”. E non c’è nessun bellimbusto sui calendari che regga il confronto.»