Recensione: “Il filo di Auschwitz” di Veronique Mougin
Dall’oscurità di Auschwitz allo splendore dell’alta moda a Parigi: la straordinaria storia di un ragazzo ribelle
Tomas Kiss, quattordicenne scapestrato, è la disperazione del padre perché si rifiuta di studiare nonché di impararne il mestiere di sarto. Ma, nella cittadina ungherese dove vive, nel 1944 per la comunità ebraica i problemi sono ormai altri. Dalle progressive restrizioni delle libertà personali si passa ai rastrellamenti e la famiglia di Tomas finisce, come le altre, ad Auschwitz. Qui Tomas perde subito di vista i suoi famigliari tranne il padre con cui combatte una lotta per la sopravvivenza quotidiana che, paradossalmente, lo porterà, per salvarsi, ad avvicinarsi proprio al mestiere paterno imparando a cucire le divise degli ufficiali e rappezzare quelle dei prigionieri. Sopravvivono entrambi, ma il Tomas che esce fra mille peripezie dal campo di concentramento è drasticamente cambiato: è – precocemente – un adulto disincantato e duro. Insieme al padre tenta di tornare nel paese di origine, dove però tutto è cambiato, compresi i confini, ed emigra definitivamente a Parigi dove, grazie all’aiuto di una variegatissima comunità ebraica, dolente ma con una grande voglia di ricominciare a vivere, troverà infine la sua strada.
Nel Filo di Auschwitz Véronique Mougin racconta con penna magistrale la storia di un ragazzo, feroce e fragile come tutti gli adolescenti, un Tom Sawyer ungherese e ribelle che non è «solo» una vittima, non è un eletto, non è un simbolo, bensì una persona di quelle che si devono ricostruire dopo essere state all’inferno.
Questo è un libro non semplice per l’argomento affrontato, ovvero i campi di concentramento. Mostra, però, al lettore tanti aspetti, come la vita, da cui ognuno può trarre il suo insegnamento. È innanzitutto la storia di un ragazzo appena quattordicenne, con tutti i tormenti “giusti” della sua età: un padre troppo rigido ed autoritario che vede in lui il suo naturale erede, una madre che in realtà è una matrigna e, sebbene lo abbia amato e cresciuto come figlio suo, sentita troppo lontana e sconosciuta dal nostro protagonista, un fratellino un po’ appiccicoso e invadente, che spesso viene scacciato come una mosca fastidiosa.
Tutto questo finisce nel modo più tragico, e il ragazzo si trova a dover affrontare la morte e la lotta per sfuggirle in un campo di concentramento. Qui imparerà le piccole astuzie che gli consentiranno di sopravvivere ai suoi aguzzini, e sarà proprio il mestiere di sarto, che lui odiava e disprezzava in favore di una più fascinosa tuta da idraulico, a salvarlo; la sua capacità di adattamento e l’intelligenza gli mostreranno la via per la salvezza.
Finalmente in salvo a Parigi, assieme al padre miracolosamente sopravvissuto, e lasciata l’Ungheria in cui non c’è più una casa, né famiglia né amici, il cucito, con i suoi fili sottili, lo trascinerà avviluppandolo in una matassa cangiante come la seta, tessuto che Tomi preferisce.
Non più sarto da uomo come il severo genitore lo voleva, ma sarto da donna, dedicando la sua vita a tutte quelle ragazze che non conosce, ma che ammira vivamente per le strade di Parigi, incarnazioni di gioia di vivere e spirito di sopravvivenza.
Questo suo cammino, salendo sempre più in alto verso le vette dell’alta moda, gli permetterà di tenere sempre a bada la paura, il terrore che il suo successo possa finire, un terrore che solo un suono qualsiasi può far riaffiorare. Questo perché Tomas sarà sempre segnato dalla tragedia che lo ha colpito insieme a milioni di ebrei, e tutte le sue scelte saranno sempre condizionate dal desiderio di riscattare i suoi morti, preferirà acquistare una macchina al posto di una casa perché gli permetterebbe di scappare dai suoi nemici.
Un romanzo importante, che è comunque un inno alla vita e alla speranza, seguendo quel filo che dalla lontana Ungheria, passando per il fango di un lager, permetterà al protagonista di realizzare i propri sogni.
Da leggere.